PAIN SCIENCE

È sempre difficile consolare un dolore che non si conosce. (Alexandre Dumas, figlio)

Il dolore è significativamente il sintomo principale che porta i pazienti a cercare aiuto da un professionista sanitario. Per questo, è fondamentale per il fisioterapista, comprendere quelli che sono gli aspetti rilevanti di questo fenomeno sfatando i luoghi comuni e agendo secondo una visione il più possibile in linea con le recenti acquisizioni scientifiche.

Il dolore può diventare una vera e propria malattia che ha degli effetti disabilitanti con costi sociali incredibili. Per questo è necessario aumentare le nostre conoscenze sul tema dando al fisioterapista delle moderne strategie di comprensione e gestione del dolore che si traducano in risultati clinici migliori.

Pertanto, quello che ti invitiamo a fare, è un breve viaggio nella conoscenza, un approfondimento che non ha la presunzione di essere un trattato esaustivo sull’argomento ma rappresenta un utile e pratico vademecum sul tema ricco di intuizioni per aumentare le possibilità di trattamento.

SFATIAMO QUALCHE MITO

Un mito è una religione in cui nessuno crede più.

(James K. Feibleman)

-E’ ovvio che ho mal di schiena, ho la scoliosi?

-Mi fa male la cervicale perché sono pieno d’artrosi?

-Per quale motivo è venuto a fare terapia? Ho 3 protrusioni che mi danno mal di schiena

-Ma il mio mal di schiena può essere dovuto al fatto che ho una gamba più corta di 1 centimetro?

Quante volte abbiamo sentito frasi di questo tipo nei nostri studi di fisioterapia. Ma queste credenze corrispondono a verità? Per rispondere a questa domanda prendiamo in esame tre interessanti lavori scientifici che sono particolarmente validi perché coinvolgono quantità rilevanti di soggetti. Ovviamente in letteratura possiamo trovare anche altri articoli che supportano la tesi che troverai nel TAKE HOME MESSAGE di questo paragrafo.

1- Nourbakhsh nel 2002 ha studiato su 600 soggetti la relazione tra fattori meccanici e incidenza di mal di schiena e ha trovato che non ci sono differenze significative per quanto riguarda la lordosi lombare, il tilt pelvico, eterometrie degli arti, lunghezza degli addominali, degli ischio crurali e del muscolo ileo psoas e l’incidenza del mal di schiena.

2-Nel 2003 Peterson ha pubblicato uno studio sulla degenerazione dei dischi cervicali prendendo in esame la colonna cervicale di 180 soggetti. I risultati sono stati che non vi è correlazione tra degenerazione discale e dolore e disabilità.

Brinjikji nel 2015 ha fatto una review sistematica della letteratura prendendo in esame 33 studi scientifici per un totale di 3110 soggetti. Questo studio, pubblicato sulla rivista scientifica American Society of Neuroradiology ha trovato che immagini di degenerazione della colonna vertebrale hanno una grande prevalenza nei soggetti asintomatici. Ovviamente la degenerazione aumenta con l’aumentare dell’età dei soggetti esaminati. Questo studio suggerisce che i reperti radiografici di degenerazione come ad esempio la degenerazione discale, perdita di segnale discale, diminuzione dell’altezza dei dischi, protrusioni discali, e artropatia delle faccette sono generalmente parte del normale processo di invecchiamento più che un processo patologico che richiede un intervento esterno.

Tutto ciò ci deve spingere a cambiare il nostro approccio comunicativo con i nostri pazienti. Molto spesso, infatti, i pazienti giungono alla nostra attenzione con referti di esami che spesso lo allarmano. Il nostro compito, a questo livello, è di spiegare che diverse forme di alterazioni anatomiche (protrusioni, riduzioni di spazi intervertebrali etc) costituiscono il normale processo di invecchiamento e anche la presenza di dismorfismi della colonna (Scoliosi, ipercifosi etc), non costituisce una ragione sufficiente a produrre dolore.

Tutto ciò al fine di muovere un primo passo nel cambiamento delle convinzioni del nostro paziente.  La moderna letteratura scientifica supporta l’idea che convinzioni disfunzionali possano portare il paziente a cronicizzare, pertanto è indispensabile educare il paziente al reale significato degli esami diagnostici o delle alterazioni postural

TAKE HOME MESSAGE:

Non vi è una relazione diretta tra alterazione anatomica e/o posturale e dolore.

Dobbiamo comunicare in maniera efficace questi concetti ai nostri pazienti.

COMPRENDERE IL DOLORE

Ti sei mai chiesto quali sono i 5 segni vitali? Quali sono i segni che identificano univocamente che sei ancora in vita? Se non conosci la risposta a questa domanda ciò che leggerai nella tabella ti sorprenderà. Ebbene si. Se dovessi per qualche sventura trovarti ad essere ricoverato in un reparto di rianimazione spera di sentire dolore perché questo è uno dei 5 segni di vita.

SEGNI VITALI

Frequenza respiratoria

Frequenza cardiaca

Temperatura

Pressione sanguigna

Dolore

Il dolore ci protegge. Il dolore, infatti, è necessario per la vita. Potremmo definirlo come un compagno fedele e leale che ti fa capire che forse, potresti essere in pericolo e che dovresti fare qualcosa per evitarlo. In alcuni casi, purtroppo, il sistema che elabora il dolore, e che quindi ci protegge, può andare incontro a malfunzionamenti e ci impedisce di fare cose per noi piacevoli e sicure. Permettimi di utilizzare una metafora: immagina di essere al luna park e il tuo migliore amico ti impedisce di salire sulla montagna russa perché ha paura. Il tuo compagno di avventure diventa in questo modo il tuo un carceriere impedendoti di fare ciò che ti piace.

Allo stesso modo, un “malfunzionamento” del sistema di elaborazione del dolore, può produrre dolore senza che ve ne sia realmente bisogno e, pertanto, limitare le tue possibilità.

Per comprendere come possono avvenire queste disfunzioni è necessario capire come funziona il processo di generazione del dolore.

Nel ‘700, il filosofo francese Rene Descartes, nel libro: “Traite de l’homme”, pubblicò questa celebre illustrazione su come funziona il processo doloroso. Descartes era dell’idea che il dolore fosse prima “sentito” dai tessuti del corpo, e che poi venisse mandato un messaggio al cervello. Una sorta di marker dello stato di salute dei tessuti, ed effettivamente è ciò che normalmente si crede, essendo la più comune interpretazione del dolore. Questo modello considera il cervello come un organo passivo che è guidato unicamente dagli stimoli. Abbraccia la nozione che quando il cervello riceve segnali sensitivi dal corpo li converte direttamente in esperienze consce.  Questo modo di pensare porta a credere che i sintomi sono direttamente correlati ad una una disfunzione fisiologica e il miglioramento è la conseguenza del ripristino  della funzione corporea. Questo modello ha fallito in quanto non è in grado di spiegare 2 fenomeni ben documentati in medicina:

1-I pazienti che sperimentano dolore senza una lesione patofisiologica

2-L’esperienza della riduzione del dolore in caso di somministrazioni di trattamenti placebo.

Le acquisizioni scientifiche degli ultimi 50 anni ci hanno fornito modelli più precisi di come funziona il dolore che possono spiegare in maniera esaustiva i fenomeni che vediamo nella clinica.

Innanzitutto è importante comprendere che possiamo percepire dolore a seguito di una trauma o di una lesione. In seguito a questo evento il corpo attuerà un processo di guarigione che si articola in 4 fasi:

Emostasi, Infiammazione, Proliferazione e Rimodellamento.

Diversi tessuti hanno tempi di guarigione differenti che vanno dai 2 ai 6 mesi.

I tessuti molli, come la pelle, impiegano dai 10 giorni alle 2 settimane. I tessuti molli profondi, possono necessitare dai 3 ai 6 mesi. L’osso impiega dalle 3 settimane ai 6 mesi per guarire ed ultimare la fase di rimodellamento. Il dolore, normalmente, è percepito nella fase infiammatoria del processo di guarigione dove ci sono grandi quantità di sostanze chimiche, la zuppa infiammatoria, che eccitano il sistema nervoso e portano a sviluppare dolore. Il dolore acuto, in questo caso, ha un ruolo fondamentale ovvero proteggere il processo in atto e prevenendo ulteriori danni. (Lederman 2015).

Le terminazioni nervose Aδ e C, deputate al trasporto di informazioni nocicettive, in seguito a trauma o sollecitazione anormale, inizieranno a mandare segnali. Il corpo cellulare di queste fibre si trova nel ganglio che si trova nel ganglio a T.

Questi segnali arriveranno nel midollo dove faranno sinapsi con un interneurone (prima sinapsi) che riceve anche afferenze dal sistema inibitore discendente del dolore. Il viaggio del segnale nocicettivo continua nell’assone dell’interneurone che decussa e andrà a comporre il fascio ascendente spino talamico. Fino a questo livello non possiamo ancora parlare di dolore ma di stimolo nocicettivo.

Questo stimolo, a livello talamico, viene smistato in un network che vedremo costituirà la neuromatrice del dolore.

In particolare lo stimolo arriva sulla corteccia sommato sensitiva (S1-S2) che ci informa sulle caratteristiche della sensazione e sulla sua localizzazione. Arriverà sulla Corteccia prefrontale, responsabile dell’attenzione e che pianifica come intervenire per rimuovere la sensazione.

Lo stimolo verrà distribuito sul Giro Anteriore del Cingolo, che è parte del sistema libico e che da un contributo affettivo emozionale all’esperienza oltre che di memoria. 

Infine il segnale arriverà sull’insula, struttura che ci informa su quando è il momento di agire. Dopo il talamo possiamo parlare di dolore che, per come abbiamo visto, è un’esperienza complessa che si realizza con il contributo di diverse aree cerebrali, quelle citate sono le principali.

Queste aree sono interconnesse tra di loro quindi, dobbiamo immaginare, che un’esperienza dolorosa può crearsi sia per uno stimolo proveniente dalla periferia ma anche per uno stimolo che possa avere partenza da una qualsiasi area appartenente al network della neuromatrice. Le interconnessioni tra le aree appartenenti alla neuromatrice si rinforzano tanto più quello stimolo viene evocato. Come un pianista impara sequenze di  movimento prodotte dall’attivazione di particolari sequenze di motoneuroni mediante l’allenamento, allo stesso modo, il ripetersi di stimoli dolorosi  allena e quindi rinforza le sinapsi che producono quell’esperienza. Pertanto possiamo dire che si ”impara” ad avere dolore.

Fortunatamente, oltre ad avere un sistema di produzione dell’esperienza dolorosa, abbiamo anche un sistema di modulazione della stessa. Il nodo centrale di questo sistema è il PAG (sostanza grigia periacqueduttale). Questo nucleo, riceve stimoli da diverse aree cerebrali tra cui la corteccia somato sensitiva e l’ipotalamo e manda stimoli mediante il sistema di fasci discendenti all’interneurone della prima sinapsi. In questo modo si realizza la modulazione del dolore. L’attività del PAG è influenzata da diverse aree cerebrali tra cui le aree deputate ad aspetti cognitivi e aree interessate ai processi affettivi emozionali.

LA NEUROMATRICE DEL DOLORE

Noi non soffriamo per i fatti, ma per la rappresentazione che noi abbiamo dei fatti.

(Epitteto)

Il concetto di neuromatrice del dolore fu introdotto da Ronald Melzack, già autore della teoria del cancello, all’inizio del XXI secolo.

Questa teoria può essere ben spiegata dalla figura raffigurante la neuromatrice.

Abbiamo input alla neuromatrice che provengono dal sistema sensitivo come ad esempio gli stimoli meccanici che possono essere prodotti in caso di trauma o di sovratensionamento di strutture algogene (muscoli, legamenti, tendini, capsule etc). Abbiamo input di natura emozionale, correlati al sistema limbico che sono associati a meccanismi di omeostasi/stress e infine  abbiamo un contributo all’input dovuto alle aree cerebrali correlate alla componente cognitiva. I ricordi delle precedenti esperienze, l’attenzione, il significato e l’ansia appartengono tutte a questa componente.

L’output che verrà prodotto dalla neuromatrice sarà la percezione del dolore con le sue dimensioni sensoriali, affettive e cognitive, la pianificazione dei comportamenti volontari e involontari da compiere e infine il programma di regolazione dello stress mediante cortisone, noradrenalina e endorfine e l’attività del sistema immunitario. Questo modello offre sicuramente una visione più completa di quella fornita da Descartes del fenomeno dolore e d è in grado di spiegare fenomeni complessi come la sindrome dell’arto fantasma, l’assenza temporanea di percezione del dolore di fronte a obiettivi danni tessutali. Ciò può essere osservato in seguito a traumi a seguito di una potente reazione “fight o flight” e infine la presenza costante di dolore percepito in tutto il corpo accanto a sintomi neurovegetativi, distress, alto arausal (Stato di eccitazione) psicofisico e assenza di franche condizioni mediche obiettivabili come accade nel dolore idiopatico tipo la sindrome fibromialgica.

OLTRE LA NEUROMATRICE

L’uomo è nato per creare. La vocazione umana è quella di immaginare, inventare, osare nuove imprese.

(Michael Novak)

Oltre a valutare quelli che sono i segnali che costituiscono gli input al sistema della neuromatrice, è necessario prendere in considerazione un parametro che sta destando gli interessi della ricerca degli ultimi anni: la salienza.

La salienza è la capacità che l’input sensoriale ha di competere col background di informazioni in cui è inserito e di imporsi su di esso, sarebbe in ultima istanza la qualità determinante affinchè uno stimolo provochi la percezione dolorosa.

Le caratteristiche della salienza sono:

-La novità

-La non conoscenza

-La mancanza di pregressa esperienza rispetto un input sensoriale.

Ciò spiega l’attenzione che le persone danno al presentarsi di una sensazione nuova, che non conoscono e non fa parte del background di esperienze passate.

C’è infine un concetto estremamente affascinante che sta prendendo importanza a livello scientifico ed è chiamato “il cervello Bayesiano”. L’inferenza Bayesiana è un metodo in cui si utilizzano considerazioni “personali” per assegnare la probabilità ad un determinato evento prima ancora di fare l’esperimento. (PAIN 2019)

Sembra una cosa estremamente complicata, vero? Ti faccio un semplice esempio che renderà tutto più chiaro. Guarda l’immagine SOPRASTANTE non questa a fianco, e dimmi se il quadro A è dello stesso colore del riquadro B. La risposta che il nostro cervello Bayesiano produce è NO!

Questo succede perchè il riquadro A si trova tra 2 bianchi e deve pertanto essere nero mentre il riquadro B si trova tra 2 neri e pertanto deve essere bianco. Queste considerazioni in base alle nostre precedenti esperienze in cui in una scacchiera un riquadro nero si trova tra 2 bianchi e viceversa. Questo è il tipico esempio in cui, prima ancora di fare l’esperienza, il nostro cervello  assegna una probabilità ad un evento. Se osservi meglio la figura ti renderai conto che non è così, in questa illusione ottica i 2 riquadri sono perfettamente dello stesso colore. Per aiutarti in questa operazione ho isolato i 2 quadrati nella figura successiva.

In sostanza, in tempi rapidi, il cervello genera a priori, secondo le regole Bayesiane, una cascata dall’alto verso il basso di ipotesi codificate neuralmente (per lo più non consce) sullo stato del corpo e del mondo. Questo flusso di ipotesi dall’alto verso il basso è incontrato dal flusso bottom-up di input sensoriali provenienti dal sensi

Ogni mancata corrispondenza tra l’input predetto e quello attuale risulta come un “errore di predizione” il quale richiede al sistema di rivedere le ipotesi. Pertanto, la percezione bottom-up è inseparabile da quella top-down.

L’implicazione fondamentale di questa teoria è che noi non percepiamo il mondo per come realmente è, ma il cervello fa la miglior supposizione, continuamente ridefinendo le evidenze degli input sensoriali.

Alla luce di questa ipotesi noi non sentiamo necessariamente dolore perché lo percepiamo dalla periferia del nostro corpo. Per riassumere il tutto  in maniera semplice e utile noi sentiamo dolore perchè abbiamo predetto che percepiremo dolore, sulla base di integrazioni di input sensoriali, esperienze precedenti e fattori contestuali.

Pertanto la riabilitazione deve favorire la creazione di nuove ipotesi e nel capitolo “Cosa fare” vedremo alcune strategie che possono portarci a questo risultato.

COSA FARE

Con la fantasia e la conoscenza si fa la scienza mentre con la fantasia e l’ignoranza si fa la fantascienza.

(Carmelo Bosco)

Come lavoriamo su pazienti che soffrono di dolore? Alla luce di queste moderne acquisizioni quale può essere il sistema più efficace per aiutare il paziente?

Il primo passo da compiere è creare col paziente un relazione di fiducia. Se il paziente non si fida di te non riuscirai a portalo fuori dalla situazione che sta vivendo. Troppo spesso gli operatori sanitari hanno l’errata convinzione che siccome il paziente si è rivolto a lui allora si fida di lui. La fiducia è qualcosa che si deve costruire, con tecniche e strategie precise in ogni momento dell’incontro terapeutico

Se il paziente ha caratteristiche di dolore acuto, caratterizzato da infiammazione tissutale, il miglior approccio deve prevedere un trattamento integrato che per lenire l’infiammazione e ripristinare al più presto la funzione.

Se il paziente soffre da molto tempo è ragionevole, oltre a trattare il tessuto che produce l’input, sempre che questo sia ancora presente, è necessario considerare che il sistema nel tempo si sensibilizza producendo quel malfunzionamento caratterizzato dolore che persiste e si amplifica a prescindere dalla presenza dell’input.

Questa condizione è caratterizzata da fenomeni come allodinia, e iperalgesia oltre ad un ampliamento dell’aerea sintomatica.

Per spiegare come si sia sviluppi la cronicità e la conseguente disabilità è necessario prendere quindi in esame non solo le componenti fisiche di un problema ma anche quelle psicologiche. In particolare la letteratura scientifica  ci propone un modello che spiega come patologie minori, come ad esempio il mal di schiena, possano andare incontro a cronicizzazione. Il nome è appunto modello di paura-evitamento del dolore.

MODELLO DI PAURA EVITAMENTO

Per spiegare il modello di paura evitamento, illustrato dalla figura, iniziamo dalla parte centrale ovvero il trauma a cui consegue l’esperienza dolorosa.

Ogni individuo, a seguito di un’esperienza,  che sia dolorosa o meno, crea un set di convinzioni sull’esperienza stessa.

Per quanto riguarda una patologia, le 5 categorie di convinzioni che si creano sono:

1-L’identità ovvero il nome della malattia. Al nome, come ovviamente puoi comprendere, sono connessi dei sintomi specifici che individuano la malattia stessa.

2-La linea del tempo ovvero la percezione della durata della malattia.

3-Le conseguenze della malattia in termini di disabilità.

4-Le cause della malattia.

5-Il controllo, ovvero se il paziente può fare qualcosa o meno per fronteggiare la malattia, in altri contesti viene definita anche autoefficacia.

Le convinzioni, conscie o inconscie, creano i comportamenti che il paziente mette in atto. Per questo, quando osserviamo un paziente con coping strategy negative, il vero piano d’intervento non deve essere indirizzato ai comportamenti piuttosto alle convinzioni che il paziente ha.

La prima risposta che il paziente può sviluppare, che costituisce la porta di accesso alla cronicità, è la catastrofizzazione. Questa, per definizione, è il processo mediante il quale è portato a pensare alle conseguenze più negative che si possano concepire.

Quando un individuo avverte una sensazione, se crede che costituisca una minaccia allora sperimenterà paura rispetto quel determinato stimolo/esperienza. La paura, infatti può essere definita come una reazione specifica ad una minaccia specifica e identificabile come ad esempio un animale o una ferita. La paura ci può proteggere impedendo un danno producendo un comportamento che è associato alla risposta combatti o fuggi. La risposta comportamentale di difesa alla paura è la fuga che riduce i livelli di paura nel breve temine ma rafforza la paura nel lungo temine.

3 SCOPERTE SULLA PAURA

Tre recenti scoperte importanti nel campo della paura sono che:

1-Le persone con fobia (Paura intensa e irrazionale) non necessariamente hanno una storia di esposizione personale a situazioni traumatiche.

2-Durante il processo di estinzione, non avviene il disimparare, ma piuttosto un nuovo apprendimento che lascia l’associazione originale rendendo probabile la recidiva.

3-Esistono differenze individuali nella vulnerabilità che possono influenzare il grado di probabilità che la paura possa essere sperimentata, acquisita o mantenuta nel tempo.

L’ansia è uno stato emotivo orientato al futuro. Nonostante le componenti dell’ansia siano simili a quelle della paura queste sono meno intense.

Inoltre, mentre la paura motiva l’individuo a impegnarsi in comportamenti difensivi, l’ansia è associata a comportamenti preventivi, compreso l’evitamento. Una componente dell’ansia è la produzione di ipervigilanza. Sia l’evitamento che l’ipervigilanza riducono l’ansia nel breve termine ma hanno effetti controproducenti nel lungo termine. Vi è evidenza che la catastrofizzazione può essere un precursore della paura connessa al dolore.

Riassumiamo quindi quanto detto per capire cosa fare:

Il paziente a seguito di un’esperienza può avere dolore che dipende dall’intensità dello stimolo, dal contesto, dalle precedenti esperienze (sistema previsionale), dal suo stato emotivo etc.

Nell’esperienza si creeranno delle convinzioni che possono supportare la guarigione o possono limitarla. Se il paziente dovesse iniziare a porre la sua attenzione su tutto ciò che può andare male in quella situazione, catastrofizzazione, si svilupperanno paura che produrrà evitamento e ansia che produrrà ipervigilanza.

In queste condizioni l’approccio più diffuso in riabilitazione è quello della PNE ovvero della Pain Neuroscience Education che consiste nell’educare il paziente rispetto la neurofisiologia, la neurobiologia il sistema di interpretazione e rappresentazione del dolore. I capitoli precedenti sono un modo di fare PNE.

La PNE si è dimostrata efficace in diverse condizioni di dolore cronico ma non è ancora chiaro come mai questa tecnica non è efficace sull’intera popolazione di pazienti che soffrono di dolore cronico. In un recente studio condotto dal gruppo di Nijs, lo sviluppatore della PNE, su pazienti affetti da fibromialgia e da sindrome da fatica cronica si può evincere che l’efficacia dell’educazione non ha grande effetto su questi pazienti in merito alla riduzione del pensiero catastrofico riguardo al dolore e la paura.

Secondo chi scrive questo può essere dovuto al fatto che gli approcci educativi propongo un approccio razionale/cognitivo ad un processo irrazionale ed emotivo.

Immaginiamo che una persona sia rimasta chiusa nell’ascensore e da allora abbia sviluppato paura/fobia nel riprendere questo mezzo di trasporto. L’approccio razionale/cognitivo in questo caso sarebbe quello di andare dal soggetto mostrargli le statistiche dimostrando che l’ascensore è il mezzo di trasporto più sicuro al mondo.

Secondo te questo approccio può funzionare?

Sicuramente no perché la paura che il paziente ha sviluppato non è un evento razionale e quindi non è detto che si riesca a razionalizzare.

Per questo potrebbero essere utili tecniche differenti che bypassano la razionalità e lavorano direttamente sulla strategia mentale che porta il paziente ad avere paura.

Quindi il piano d’intervento dovrebbe essere così costituito:

1-Intercetta le convinzioni limitanti.

2-Aiuta il paziente ad avere una prospettiva più ampia della convinzione limitante. Per raggiungere questo scopo puoi lavorare cognitivamente mediante le tecniche di explain pain e educazional science. Qualora questo approccio non funzionasse puoi utilizzare tecniche diverse come quelle che insegno nei miei corsi: il metamodello, che consiste in un set di domande volte a dare una percezione diversa della convinzione, gli sleight of mouth,  che sono tecniche di reincorniciamento verbale delle convinzioni oppure cambiare le submodalità, che sono il sistema con cui il nostro sistema nervoso codifica le convinzioni.

Se il paziente presenta fobia di movimento può essere utile utilizzare la tecnica di rimozione veloce delle fobie proposta dal PNL, ma magari di questo ne parliamo in un altro articolo.

TAKE HOME MESSAGE:

Concludendo possiamo dire che la comunicazione può essere uno straordinario mezzo per lavorare sul dolore del paziente da integrare a qualsiasi approccio già in utilizzo.